Mario Monicelli


 Nato nel 1915 a Viareggio, figlio di Tommaso Monicelli, giornalista e drammaturgo, cresce a Viareggio, frequentando il liceo e l'università a Milano, sviluppa la sua passione per il cinema, condivisa insieme ai cugini Mondadori, con i quali inizia a scrivere sulla rivista "Camminare", che ha fra i suoi collaboratori anche altri futuri registi: Alberto Lattuada, Riccardo Freda e Renato Castellani. Nel 1934, con Alberto Mondadori, realizza un cortometraggio muto in 16 mm, Il cuore rivelatore, tratto dal racconto di Poe. L'anno successivo i due affrontano il lungometraggio, girando I ragazzi della via Paal, utilizzando come attori amici e parenti e vincendo a Venezia il premio per il miglior film a passo ridotto. Fa quindi da aiuto regista per Gustav Machaty, Genina, Camerini, Gentilomo, Bonnard, Mattoli, Germi e insieme a Steno dà vita a un felice sodalizio che li vede prima collaboratori al giornale satirico "Marc'Aurelio" e poi prolifici sceneggiatori.
Proprio con Steno fa il suo vero esordio alla regia nel 1949 con Totò cerca casa e dopo otto film in coppia (fra cui Al diavolo la celebrità , Totòe i re di Roma e Guardie e ladri), prosegue da solo a partire da Proibito (1954) con Lea Massari. Comincia a delinearsi un autore "nazional-popolare", ma irrispettoso di ogni retorica, pessimista, feroce, demistificatore di sacralità e continuamente alla ricerca delle umane debolezze dei suoi personaggi, mettendone in evidenza anche i connotati cialtroneschi e il loro lato ridicolo.
L'opera più riuscita e più godibile è senza dubbio I soliti ignoti (1958), che ha avuto oltretutto il merito di recuperare al cinema un attore allora mal sfruttato come Vittorio Gassman. Fra trovate irresistibili che descrivono un sottobosco criminale dei più sgangherati, Monicelli (grazie anche ai suoi più grandi collaboratori Suso Cecchi D'Amico, Age e Scarpelli) testimonia ancora una vola questa sua innata capacità di fondere insieme attenzione ai personaggi e alle storie raccontate, valutazione critica e notazione ironica, che si fa più sapiente col passare degli anni. Allo stesso modo film come La grande guerra (1959), con Vittorio Gassman e Alberto Sordi in versione soldati lavativi e sfaticati, e I compagni (1963), ingiustamente poco considerato, ma senza dubbio uno dei più intensi film da lui diretti - tanto che ebbe perfino una nomination agli Oscar per soggetto e sceneggiatura - trasportano sullo schermo pagine di storia e fatti di costume riuscendo spesso a porre l'accento sui problemi con intensità maggiore dispetto a giornali o liberi.
Sono poi gli anni della sua opera preferita L'armata Brancaleone (1966), che rivisita in chiave grottesca il Medioevo, senza dimenticare La ragazza con la pistola (1968), Amici miei (1975), Un borghese piccolo piccolo (1977), Speriamo che sia femmina (1986).
Tra i riconoscimenti alla sua produzione vanno ricordate le quattro nomination all'Oscar come film straniero per I soliti ignoti, La grande guerra, La ragazza con la pistola e I nuovi mostri (1977) e per le due per soggetto e sceneggiatura originali per I compagni e Casanova 70 (1965). Svariati i David di Donatello. Miglior regia per Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia femmina e per Il male oscuro (1990), Nastri d'Argento e due Leoni d'Oro, uno per miglior film con La grande guerra e l'altro alla carriera nel 1991. Anche regista teatrale, commediografo e regista televisivo, si è prestato, occasionalmente come attore in L'allegro marciapiede dei delitti (1979) e in Sono fotogenico (1980).
Nel 1990, periodo di crisi del cinema italiano, riesce a rimanere a galla dirigendo Alessandro Haber, Cinzia Leone, Marina Confalone e Paolo Panelli nella commedia anti-familiare Parenti Serpenti (1992), poi passa a Villaggio, Troisi, Melato e Placido in Cari fottutissimi amici (1994), Facciamo Paradiso (1995) e Panni Sporchi (1999) e nel nuovo millennio si presenta al pubblico e alla critica, parlando della bestia nera che più di ogni altro l'ha ossessionato nella sua vita: la guerra. Il film Le rose del deserto (2006) che ancora una volta mette in luce una visione antieroica dell'esercito italiano.

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